Come molti degli abitanti di quella montagna, Anna Rovera aveva imparato a raccontare fiabe, con una ben precisa tecnica narrativa, caratterizzata da espedienti tanto semplici quanto efficaci: motti di stupore, pause, sottolineature con colpi leggeri delle mani, cambiamenti acuti o gravi della voce.
Non mutava tanto l’espressione del viso, e il corpo era fermo, si raccontava da seduti, mutava la voce.
Sono storie che nascono per essere raccontate, come in ogni tradizione orale.
La tecnica narrativa sviluppata dai montanari acciugai narratori è volta a catturare e mantenere l’attenzione del pubblico, a incutere paura o a far ridere a crepapelle.
E se, per qualche motivo (si è fatto tardi, nevica forte e chi racconta deve tornare a casa, ecc.), la storia deve essere interrotta, tutti supplicano perché il narratore non se ne vada, poichè la curiosità di sapere come andrà a finire è incontenibile.
Colpisce il fatto che dei montanari, persone semplici, che si direbbe avvezzi più alla fatica fisica che alla ricerca di un garbo estetico, dato dal ritmo e dal tono della voce, avessero invece appreso un’incredibile capacità narrativa. Era giunta loro attraverso la voce, attraverso la frequentazione assidua di quel palcoscenico che era la stalla. Allo stesso modo, raccontandola, proseguivano la tradizione, nel senso più vero della parola, cioè trasmettevano direttamente.
Si raccontava che negli anni ‘30 un acciugaio soprannominato Barbìs, nel periodo invernale, alloggiasse a Montà d’Alba e pare che da Canale andassero a prenderlo col biròc, purchè scendesse a raccontare, data la sua maestria in questa arte.
Nelle Storie, per la capacità del narratore di adattare a proprio favore la situazione, capita spesso che questo o quel bambino della Borgata divenga personaggio del racconto e lo si incontra mentre porta al pascolo le mucche o le capre, esattamente come avveniva nella realtà.
La stalla: luogo di incontro e di narrazione
La tradizione della narrazione deriva indubbiamente dalla necessità di dover trascorrere lunghi mesi invernali di freddo e poca luce nell’unico ambiente confortevole che gli edifici della borgata offrivano: la stalla. Nella stalla convivevano gli animali, i neonati nelle culle, le donne che cucivano, cucinavano o allattavano, i bambini che giocavano, le ragazze che ricamavano il corredo e i vecchi che raccontavano.
Poteva di tanto in tanto essere ospitato qualche vicino di casa o, nel periodo carnevalesco, arrivare mascherato qualche giovanotto (i fremenète) che aspirava a corteggiare le ragazze.
La lunga permanenza in quegli ambienti umidi, insieme ad un’alimentazione scarsa e povera, fu una delle cause che per decenni portò molti degli abitanti ad ammalarsi di tubercolosi.
L’epica di borgata come guida morale
Anna Rovera aveva ascoltato le Storie da Codighiu dai genitori, dai nonni, dagli anziani ed erano divenute nella sua vita una sorta di “guida morale” alla quale ispirarsi, quando ci fossero da prendere decisioni o dovendo accordare fiducia a degli estranei o in mille altri casi.
Questa raccolta è l’epica della borgata Ghio, tramandata di generazione in generazione e anche trasferita a persone di altri territori in virtù della particolare attività stagionale di acciugai svolta da quasi tutti gli uomini giovani e in salute di lassù.
Le Storie da Codighiu venivano infatti raccontate la sera nelle stalle dagli acciugai che, partendo dalla Borgata Ghio, si inoltravano nelle Langhe, nel Roero, verso Asti, Alessandria, Torino, Pinerolo, spingendosi fino a Milano, Pavia, Piacenza e anche a Domodossola.
L’incipit
Tratto da:
Testimone: Anna Rovera nata a Dronero il 27/02/1909, morta a Bra nel maggio del 2002
Intervistatrice: Elena Rovera
Luogo e data della registrazione: Bra, 20 marzo 1996
Intervistatrice: Mentre mi viene in mente: dimmi come cominciavano le storie, dillo bene con calma, che il nonno come cominciava le storie.
Testimone: Ah, delle volte, forse non ne aveva voglia, ma lo faceva apposta, ah, beh, noi lo tentavamo, ah, beh, adesso ve la racconto: “Tempus abremus, operamus. boni, et in galeravi, qui farina non ebbi, polenta non feci”, ma noi sentivamo quello lì, ma eh là in mes a Barg e Bagnol a i era un demoni, nianva el diau ca lu vol, ci faceva andar matti.
Intervistatrice: Dì di nuovo con calma
Testimone: Tempus abremus, operamus boni, et in galeravi, qui farina non ebbi, polenta non feci, ven en bot, messo, Barge e Bagnol a i era en demoni, nianca el diau ca lu vol”.
Ah, ci faceva sempre andar matti e noi dicevamo : “No, non vogliamo”, e c’era poi Piera, c’era Piera: “Ma non quella lì, quella lì no”.
Lui rideva e diceva sempre quello lì, oh, ma avevano della pazienza con quelle storie, avevano della, pazienza, ma santa pace.
Intervistatrice: Dimmi una cosa, e tu cosa capivi, secondo te cosa volevano dire quelle parole, prova a dirle come, cosa capivi tu.
Testimone: Ma io capivo che quello, c’era uno che voleva raccontare una storia
Intervistatrice: Ma se dovessi tradurre quelle parole, dovessi dire, come diresti?
Testimone: Ma sai pa no, tempus abremus, operamus boni
Intervistatrice: Ma non ti facevi nessuna idea, cosa pensavi: tempus abremus
Testimone: Operamus boni, et in galeravis, qui farina non ebbi, che non aveva della farina, non faceva la polenta. Oh, ma ci faceva andar matte.
L’intercalare in rima
Ognuna di queste storie è connotata da un intercalare in rima in occitano che nel corso della fiaba si ripete più volte, come un ritornello, e sottolinea in certi casi il significato simbolico di un determinato momento, oppure introduce uno specifico elemento narrativo.
“Oh, graiàs, graiasunèt, dame lu miu paiasunet, senò la mio mare mirasta me masso” e lui diceva “ Den barsèt, an barsèt, t’menu veire i tìe frairet”
Tratto da:
Il finale
mamma diceva “timblo timbalo, aveva la senevra sotto la cùa, chi vulìo balàr balàvo, l’arrosto sul tavolo, chi vulìo taiàr taiàvo, e poi timblo, timballo e vìulin clarinette…”
Tratto da: