Nelle Storie si fa di frequente menzione al cibo, che era sempre poco e povero
Si tratta di polenta, di patate, burro, ricotta, formaggio, qualche acciuga appesa al filo per dare gusto alle fette di polenta scaldata.
In stagione si arricchiva il pasto con po’ di frutta: lamponi, more, mele, pere.
C’erano almeno tre forni (inseriremo quanto prima la mappa dei forni) che venivano utilizzati da tutta la Comunità: si faceva cuocere il pane una o due volte l’anno: le donne impastavano nella madia e nella madia stessa veniva poi conservato il pane, per mesi.
Abbiamo raccolto la testimonianza di un abitante di Ghio che ricordava, da bambino, verso il 1923, al pascolo, di adoperarsi a cercare qualche lumaca: se la trovava la mangiava viva e cruda perché se avesse acceso un piccolo fuoco i ragazzi più grandi se ne sarebbero accorti e l’avrebbero raggiunto per appropriarsi del suo bottino alimentare.
Dobbiamo però ricordare che c’era un piatto della festa: le raviòle da Codighiu (patate e farina) che venivano condite con un po’ di burro fritto. Li preparavano le donne e richiedevano tempo, ma erano un lusso riservato a pochi giorni dell’anno.
Anche qui esistono aneddoti sulle raviòle da Codighiu, che testimoniano quanta fame non appagata avessero quei montanari.
Nelle Storie da Codighiu, tuttavia, capita che il re desideri le pesche e i fichi in pieno inverno, con la neve: ma qui entra in gioco la magia e il re viene accontentato.