Massimo Ghio

Santa Margherita di Moschieres è un luogo che è entrato nel mio cuore esattamente il 29 agosto 1996. Ventuno anni fa. Un luogo fino ad allora a me sconosciuto e in cui da quel giorno almeno una volta all’anno faccio ritorno. Di solito sul finire dell’estate, a settembre, in quell’affascinante «zona franca» tra l’estate e l’autunno. Siamo in provincia di Cuneo, nella Valle Maira, a pochi chilometri da Dronero, il paese di Giolitti, un borgo antico con i suoi ponti, i suoi vicoli, i suoi monumenti che parlano di storia e della fierezza di una comunità non dimentica delle sue radici. Zona di acciugai, costretti in giovanissima età a lasciare la loro terra e con il carretto raggiungere le città di pianura della Lombardia e dell’Emilia per sbarcare il lunario. Terra di lotte partigiane per la libertà di un’intera nazione. Passato il centro di Dronero e arrivati a Tetti, la strada inizia a inerpicarsi tra i monti fino ad arrivare ai 1200 metri di Santa Margherita di Moschieres. Questo è il mio luogo dell’estate.

Ci arrivai in un’occasione triste della mia vita: avevo 27 anni e, insieme ad altri amici, accompagnammo nel suo ultimo viaggio Massimo Ghio, amico fraterno, che da Broni, in provincia di Pavia dove era nato e cresciuto, aveva desiderato essere sepolto proprio a Santa Margherita di Moschieres. Qui c’erano le radici della sua famiglia, di mamma Margherita e papà Michele che lasciarono le loro borgate per trasferirsi nella Pianura Padana e sviluppare la loro attività di venditori di acciughe.

Massimo aveva trent’anni e, dopo una vita spesa al servizio dei più sofferenti in tante imprese di solidarietà e dopo lunghi mesi in cui con sorprendente tenacia e grande fede lottò contro un male cattivo, fu costretto ad arrendersi.

Ricordo bene quel giorno. Partimmo da Broni di prima mattina. Dopo una sosta a Dronero, imboccammo la strada per Santa Margherita. Al grande dolore per la perdita di un amico, si aggiunse la paura – sì letteralmente paura – per quella manciata di chilometri, in una strada stretta e dissestata, tra burroni e tornanti a gomito. Arrivati infine a Santa Margherita fummo sopraffatti da un’altra delusione e dal senso di un abbandono infinito: case diroccate, la scuola e l’osteria crollate, il piccolo cimitero ricoperto da erbacce, la chiesa, maestosa con il suo campanile bianco a dire di un passato importante per la borgata, messa molto male. Eppure, dopo lo sconcerto iniziale, mi bastò poco per capire che quel luogo sarebbe entrato nella mia vita.

Arrivammo quel giorno verso mezzogiorno, in una bellissima giornata di sole. Mi colpì il silenzio. Da lassù la vista abbracciava tutta la valle. Celebrammo la Messa nella chiesa e salimmo con Massimo al camposanto, dove volle lui, nell’angolo più esposto a Sud e dove il sole nell’inverno arriva prima e se ne va dopo. Tornammo a casa. Paura e tristezza avevano lasciato il posto alla speranza.

In questi anni la Margherita – come la chiamano da queste parti – è letteralmente rinata. In tanti sono tornati, chi a salutare i propri cari nel piccolo cimitero ora sempre ricoperto di fiori e chi a riannodare i fili della memoria, chi solo per ritemprarsi dopo un’escursione. La chiesa è stata riportata all’antico splendore, grazie alla generosità e al lavoro di molti. Alcune abitazioni sono state ristrutturate.

Sono passati ventuno anni. La strada non mi fa più paura. Anzi il giorno della salita a Santa Margherita è atteso. E ogni volta che arrivo lassù sento riecheggiare nel cuore le parole di Massimo quando spiegava il perché del suo desiderio di riposare per sempre a Santa Margherita: «Qui potrete incontravi più facilmente con Dio e tra di voi».

Marco Rezzani

da #Italiadestate: sui monti di Dronero terra di acciugai e di lotte partigiane
06 Settembre 2017

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