Il pane del rastrellamento

“Nell’estate del 1944 il pane per le cinque Bande GL della val Maira veniva preparato a Castellar da Bertu Boghetto e Riccardo Pellegrino. Era un lavoro che durava tutto il giorno: il forno del paese non era molto grande e dovevano essere preparate parecchie infornate per dare la razione giornaliera di 200 grammi circa ad ogni partigiano.

I vari reparti della vallata s’incaricavano di effettuare i prelevamenti: i gruppi più numerosi si servivano di muli, mentre i distaccamenti isolati mandavano il partigiano di turno, che si caricava sulle spalle il sacco con il quantitativo di pane spettante. Questa era una delle corvées più gradite.

Il 25 agosto i tedeschi iniziarono le operazioni militari per occupare la val Maira ed attestarsi in forze sul confine con la Francia. Volevano difendere i colli alpini (Maurin, Sautron, ecc.) dagli attacchi degli anglo-americani che, dopo lo sbarco in Provenza, avanzavano rapidamente verso le Alpi.
In seguito a tali azioni militari tutta l’attività di panificazione si fermò.
I partigiani della I Banda — di stanza agli Assarti — si trovarono soli ed affamati.
Ciafrè aveva detto in giro che suo padre faceva il panettiere e fu così che venne nominato — nell’emergenza — panettiere della I Banda; si aggregò John, il quale aveva onestamente dichiarato di non avere alcuna esperienza in merito.
La prima cosa da fare fu ottenere la farina da Renato. Tibaldi Renato, classe 1894, in banda dall’8/X/43,
era uno dei più anziani fra noi; veniva anche chiamato “maresciallo” perché effettivamente era sottufficiale di carriera. Quale magazziniere della I Banda aveva dato in consegna i sacchi di farina a varie famiglie di valligiani (due o tre sacchi per ognuna di esse); così in caso di rastrellamento la nostra farina era al sicuro.

Ma l’abilità maggiore di Renato era quella di nascondere le armi esuberanti. Nei dintorni degli Assarti ci sono anfratti di roccia, piccole grotte, e Renato le aveva sfruttate a meraviglia occultando le armi, ingrassate e avvolte in teli impermeabili, e mimetizzando poi l’ingresso. Penso che vari pacchi siano ancora adesso lassù, custoditi gelosamente dalla montagna; perché quando ricevemmo, con i lanci, armi americane più moderne, i nostri vecchi catenacci caddero in disuso.

Stava per sopraggiungere la notte quando demmo inizio alla nostra impresa, partendo dagli Assarti con la farina in spalla per raggiungere il forno più vicino, che era quello della fraz. Ghio, situata a m. 1240, notevolmente più in basso degli Assarti.
Presso le famiglie della frazione troviamo il lievito naturale (crsent), forse in quantità eccessiva rispetto alla farina; ma noi, fiduciosi, lo usiamo tutto e cominciamo ad impastare.
Siamo in una stalla e ci accorgiamo che la temperatura elevata accelera troppo la lievitazione; ma non avevamo acceso il forno in tempo, per ottenere i 240º necessari alla cottura.
Inoltre la legna non voleva saperne di bruciare e scoprimmo troppo tardi che una pietra chiudeva il tiraggio; quindi anzichè fiamma viva non si otteneva altro che un gran fumo.
La lievitazione intanto continuava e per evitare una superlievitazione che avrebbe inacidito la pasta, decidiamo di cacciare le pagnotte nel forno, confidando che il tempo più lungo di cottura avrebbe compensato la temperatura insufficiente.

Era il momento di chiudere il forno, ma non riusciamo più a trovare la pietra che normalmente serviva a quest’uopo: era notte e non si lavorava certo agevolmente!
Dopo un certo tempo si inizia un dialogo concitato: John: “Sembra abbastanza cotto il pane’?”
Ciafrè, guardando nel forno: “Non ancora.
Un gruppo di cani intanto abbaia in lontananza e un valligiano viene a dirci: “Ho paura che i tedeschi stiano arrivando!” John: “Se effettivamente sono loro, oltre al pane perdiamo anche la pelle”.
Ciafrè: “Allora sforniamo e filiamocela!” Cominciava ad albeggiare. Sfornando il nostro pane la delusione era grande, perché invece di pagnotte non si vedevano che pesanti croste rosso-marrone, di pessimo aspetto.

Messo il tutto nei sacchi, mogi mogi, imbocchiamo il sentiero in salita verso gli Assarti.
Lasciamo immaginare l’accoglienza riservata al nostro pane. Le pagnottine furono posate sui davanzali delle finestre o gettate nei luoghi più disparati. La nostra quotazione di panettieri era a zero!
Il giorno dopo – però – il rastrellamento ci fu.
I partigiani frettolosamente ricuperarono le pagnotte, che consumarono poi senza ulteriori proteste nei giorni successivi.

Questo è un ricordo che ho di Ciafrè 1944 il quale, notoriamente, era più combattente che panificatore, come si può leggere nel canzoniere della I Banda. “Ciafrè faceva il pane un po’ mal cotto, ma in compenso, da guerrier qual era, sparava spesso con la P 38”.

Ora però Ciafrè è bravissimo a fare il pane; al rifugio della Margherita è stato costruito un bel forno a legna e, quando andiamo su in gruppo, ci sforna delle ottime pagnotte — croccanti e odorose — che vanno a ruba. Non contento, Ciafrè si è preparato un altro forno vicino alla sua casa di Madonna del1’Olmo e, ogni tanto, lo mette in funzione per accontentare gli amici”.
Parola Giovanni, La Montagna fiorisce ancora, Ricordi partigiani

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