De Pare en fi -Santo Lucio de Coumboscuro 23 agosto 2025

Lettura: “Tu sis peiro, mi siu rocio”, la tradizione degli acciugai narratori.

Lettura: da “Storie di Codighiu”: “La Belo dai cavej d’or”.

” Da sempre io so che io sono di Codighiu, quello è il mio posto, vengo di là. La borgata Ghio di Dronero si trova in Valle Maira a 1240 mt. Mi sono chiesta mille volte: perchè non sento, ad esempio, di venire dal paese di madre, nel Roero? Come sia andata, non lo so, ma certo è che il mio imprinting è di lassù.
Codighiu è una borgata abitata fino agli anni ’30 da circa 230 persone, si è definitivamente spopolata negli anni ’70.
Gli abitanti maschi, montanari, dopo aver fatto un po’ di fieno, grano o segale, radunato legna per l’inverno, tolte le patate, dopo il 15 agosto scendevano a valle e divenivano acciugai.
Le donne rimanevano sole per 6-9 mesi l’anno, anche con la neve alta, ad accudire i bambini, i vecchi, i malati, a tenere unita la famiglia in assenza del padre e dei figli più grandi.
La mia famiglia, mi hanno insegnato ad esserne fiera fin da bambina, erano detti Achei de Rocio “Mi siu péiro, tu sis ròcio, eiro vien chi ch’ià la testo pì düro
E nella nostra famiglia, di generazione in generazione, si tramandava una sorta di compendio morale di regole, comportamenti, insegnamenti, moniti, codici contenuti in quelle che noi abbiamo sempre chiamato le Storie da Codighiu.
Le Storie da Codighiu venivano raccontate sia da donne che da uomini capaci di “incantare” chi ascoltava con una tecnica narrativa essenziale, ma ben precisa, costituita da modulazioni nel tono della voce, piccoli movimenti del volto e degli occhi, improvvisi scatti delle spalle: perché si stava seduti, sia chi raccontava che chi ascoltava.
Io non vivevo più a Codighiu, ci tornavo ogni fine settimana e poi un mese d’estate: il nonno Pinèt si era trasferito definitivamente ad Alba nel ‘38 quando la figlia Rita, colpita dalla poliomielite, dovette iniziare la prima elementare. La bambina non avrebbe potuto, con la sua gamba rigida, salire ogni giorno fino alla Parrocchia di Santa Margherita per andare a scuola: così il nonno portò ad Alba tutta la famiglia.
Le Storie da Codighiu sono arrivate a me attraverso mio padre, Pinìn.
Mi ricordo benissimo che sedevo di fronte a lui, nella cucina di Piazza Rossetti ad Alba. Lui sulla sedia, io su uno sgabello che era un po’ rotto e mi pizzicava sempre le gambe.
Io gli chiedevo una Storia di quelle lunghe (Quella dei suc, Dusin, Urlindo, il principe Carbonaio…) e lui cercava sempre di cavarsela raccontandomene una “corta” (Petin Menin , Cumpare lup e cumare la vulp)
Oggi che racconto le Storie ai miei nipotini, faccio anche io come lui!!
Tra me e mio padre che raccontava c’era una distanza fisica, non mi appoggiavo alle sue ginocchia, né lui mi accarezzava, la separatezza era funzionale al rito: il passaggio avveniva da un narratore capace del suo ruolo a una bambina/o che ascoltasse.
In quella situazione io assorbivo ogni sua parola.
Dice Cristina Campo ne “Gli imperdonabili”:
Il vecchio […] se incominci a narrare della sua fanciullezza […] sta indicando al fanciullo una meta: non già il proprio passato, ma il suo futuro, il futuro della sua memoria di adulto. […] Un bambino che ascolta un vecchio rievocare […] sta crescendo […] sta bevendo con voluttà e tremore alla fontana della memoria.
Era come se mio padre, con il suo narrare, mi aprisse le porte dell’unico mondo al quale io (quella piccola Elena) anelavo: il mondo dell’eroica virtù spesa per salvare un amico, quello in cui l’amore fraterno
salva dai malefìci di una matrigna perfida, il mondo in cui per aver compiuto azioni virtuose, ragazzi e ragazze venivano premiati per incanto con un stella in fronte, oppure crescendo in statura o in bellezza o in ricchezza.
Ero certa dell’esistenza di uno spazio-tempo in cui l’incredibile era realizzabile.
Occorrevano fatica, impegno, costanza fede, dedizione, comportamento retto, lo sapevo, ma alla fine, il traguardo raggiunto avrebbe ampiamente ripagato ogni sforzo.
Mi perdevo in quel mondo, anche perché il nostro quotidiano vivere familiare era fatto di faticosi mercati dietro al banco del pesce, di odore acre del sale che si insinuava negli abiti e nelle scarpe, dei lavori da fare per forza da noi bambini (tagliare la carta paglia per le acciughe, infilarla nei ganci di ferro che ferivano il pollice, riempire le cassette di legno con scatolette di sardine e sgombri, aiutare caricare e scaricare il carretto per il mercato, cambiare l’acqua al merluzzo in ammollo).
Le Storie da Codighiu avevano anche una precisa collocazione fisica a Codighiu: Ilai derèire, nella Barmo del Colòu, vivevano insieme Cumpare lup e cumare la Vulp; al Fiandin la Testo da mort aspettava minacciosa i bambini che osavano passare di là; al Biàl, Petin Menin giocava a nascondino sotto le foglie delle drave, ai Chiot Derei una misteriosa vecchina si faceva togliere i pidocchi in testa dalle pastorelle e, dopo averne messa alla prova la gentilezza o la scortesia, premiava la pastorella gentile con una bella Stella sulla fronte mentre a quella scortese faceva cadere in fronte una büsa molle di mucca.
Ogni Storia viveva in uno di qui luoghi “chiamati” con il loro proprio nome, toponimi significativi attribuiti dall’uomo.

Noi sappiamo che Dio crea l’uomo e poi gli dice: “Adesso dai i nomi agli animali, dai i nomi alle cose che io ho creato”. Quindi dare i nomi ai luoghi è un gesto veramente potente che in qualche modo ripete il gesto originario di Dio che ha dato il nome all’uomo, che lo ha fatto a sua immagine e poi lo ha chiamato.

Ogni Storia da Codighiu, per non essere mai più dimenticata, imprimeva nella memoria dei giovani ascoltatori un ritornello in lingua provenzale.
D’en barset an barset te portu veire i tie frairet”, diceva il corvo mentre guidava la bimba incontro ai fratellini abbandonati nel bosco per volere della matrigna.
Tum tum mi siu Dusin e lu Draiun achì dedìn” scandiva orgoglioso Dusìn dopo aver rinchiuso il Draiùn cattivo dentro ad una bara.
Viro foi, vulto foi” erano le parole onomatopeiche che accompagnavano il gesto ampio e del re dei pesci, mentre li chiamava a raccolta, sfogliando un enorme librone.
D’eni mino ‘n cup” e poi “Foro ün, foro l’aut” erano le espressioni “alla rovescia” pronunciate fuori luogo da Toni Fol.

I vecchi, prima di raccontare, introducevano solennemente: “Tempus abremus, operamus boni, et in galeravi, qui farina non ebit, polenta non fecit
E poi, ogni storia finiva con “Timblo timbalo, vìulin e clarinette, avio la senevro suto la cuo, chi vulìo balàr balàvo, chi vulio mingiar mingiavo, l’aro¬st süs la taulo, chi vulìo taiàr taiàvo, i’an fa tante feste e spatüss e mi chi ieru dereire de l’üis i m’an duna in caus an tel cül ch’si ancà lu pertüs èiro!

Che le Storie da Codighiu abbiamo segnato in modo profondo la mia vita lo posso affermare con certezza oggi a 72 anni: non c’è stato giorno, infatti, in cui non mi sia tornato alla mente l’insegnamento contenuto in uno di quegli intercalari in rima.

Le Storie da Codighiu viaggiavano anche insieme alla famiglia degli acciugai narratori scesi verso la pianura padana, le Langhe, il Roero: mio padre diceva che uno zio, Barbìs, vendeva acciughe a Montà d’Alba: venivano a prenderlo la sera con un calesse da Canale, apposta perché raccontasse le Storie nelle stalle.
A volte, quando era stanco e voleva smettere di raccontare, ma qualche giovane insisteva, Barbìs avvisava i presenti che magari poteva raccontarne ancora una, ma che c’era un pericolo, l’ultima Storia poteva, in certi casi “far peteisar i spuse”… Neanche a dirlo, a volte questo rischio si avverava: in quei casi la sposa colpita dall’infausta predizione se ne tornava a casa un po’ mortificata, mentre gli altri ridevano e l’acciugaio narratore concludeva dicendo “Vus aviu dich

Il microcosmo che a Codighiu accoglieva noi bambini negli anni ’60, presentava, nei suoi abitanti, tutte le sfumature più o meno nobili dell’agire umano.
Proprio per questa caratteristica era una palestra a misura di bambino, per aiutarci a crescere e a comprendere il mondo.
Negli anni ’60, va detto, la vita a Codighiu era già completamente diversa da quella vissuta dai nostri genitori, cresciuti portandosi a scuola per pranzo un pezzo di pane secco da succhiare.

Fin da ragazzina ho raccolto con il registratore testimonianze orali, ma anche recuperato documenti abbandonati e oggetti buttati.
Più avanti negli anni ho registrato più di 20 Storie dalla voce di mia madrina, Anna Rovera, classe 1909, quando mi sono resa conto, dopo la morte di mio padre, che lei era l’ultima testimone diretta di questa tradizione.
Insieme alle Storie lei mi ha raccontato la vita della Borgata, le famiglie, la quotidianità, gli eventi straordinari.

Lei era una Madrina, (forse una fata Madrina?) e, mi disse un giorno parlano della sua Madrina, Maria Gianti, levatrice, detta Mirino “le madrine erano sapienti, mi sembra che sapevano, avevano anche imparato dai suoi vecchi e sapevano insegnare”.

Raccogliere tutto il patrimonio che ci è giunto dai vecchi di Codighiu, continuare ad ascoltare testimonianze, archiviarle, raccontare le Storie a chi desidera ascoltarle.
Questo è ciò che cerchiamo di fare con l’Associazione Borgata Ghio.
Da dove arrivano il nostro modo di essere, di pensare, di parlare, quella matrice che descrive il nostro progetto di espressione sulla terra: di padre in figlio? attraverso una madre lingua?

Non lo so, ma mi piace sperare che possa sempre esserci spazio nella vita dei ragazzi per Storie come quelle di Codighiu.
A questo proposito ricordo la carissima Ersilia Zamponi, insegnate straordinaria che faceva giocare i suoi alunni con le parole.
Ersilia scriveva che : “ Se i ragazzi ‘sono tutti figli di principi’, hanno diritto anche al superfluo; e il mondo — per nostra fortuna — è ancora ricco di cose inutili che, proprio per la loro gratuità, svolgono una preziosa e insostituibile funzione”.
Elena Rovera

Con il contributo di Fondazione CRC

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